domenica 23 dicembre 2012

Diritti umani, democrazia, multilateralismo


Questo il mio contributo per il nuovo numero della rivista online tamtam democratico, dedicato a "Gli USA di Obama secondo".

Forse con l’annuncio del ritiro dall’Afghanistan , nei prossimi due anni, delle truppe USA e Nato si potrà considerare definitivamente conclusa quella lunga e drammatica fase iniziata con gli attentati dell’11 settembre 2001. È stata una fase nella quale, per citare Obama, “la paura ci ha portato ad agire anche contro i nostri ideali”.




 La fine di quella fase è stata sancita nei primi mesi del 2011 dalle primavere arabe: l’incerto sbocco del duro scontro religioso, culturale e politico in atto in tutti quei paesi non può far dimenticare quei milioni di cittadini che, manifestando nelle strade senza bruciare una bandiera americana o israeliana, hanno dato al mondo intero il messaggio di una nuova possibilità. Quei movimenti hanno chiarito che la lotta per la democrazia non è la lotta tra l’Occidente e l’Islam, ma un confronto che attraversa l’Islam come d’altra parte, e in altri modi, attraversa l’Occidente.

Dopo le primavere arabe è realistico pensare che democrazia, stato di diritto, diritti umani possano camminare sulle gambe dei popoli e che ci siano le condizioni perché l’idea della loro esportazione con la forza possa essere accantonata. Non dico che siamo lì: dico che ci si può battere per questo con una speranza di successo.
In realtà, per chi avesse voluto capire, già nelle strade di Teheran e delle altre città iraniane nel giugno del 2009 questo dato era emerso in modo sufficientemente chiaro. Ma la linea scelta dall’Occidente era stata un’altra, concentrare esclusivamente sulla questione nucleare il confronto con il regime iraniano, nella totale incapacità di comprendere le caratteristiche di quel movimento e quindi di sostenerlo nelle forme appropriate.

Il terreno scelto era invece stato quello sul quale era più facile per il regime recuperare consenso e forza. Le proteste sacrosante contro alcune esecuzioni capitali nel carcere di Evin non riescono a nascondere l’isolamento nel quale si è scelto di lasciare i democratici iraniani e gli stessi leader che avevano accettato di mettersi in gioco e di rischiare per conquistare una svolta democratica.
Lo sviluppo di questo confronto, che ha attraversato l’Islam sunnita come quello sciita, è stato fortemente favorito dal cambiamento avvenuto alla guida dell’amministrazione americana. Il messaggio contenuto nel discorso del nuovo inizio, pronunciato da Barak Obama all’Università Al Azhar al Cairo il 4 giugno 2009, è arrivato in profondità nella società islamica ed è stato ascoltato dalle masse arabe e, nonostante successive contraddizioni e delusioni , continua a tenere aperto uno spazio di ascolto e di interlocuzione importante.

Nel momento in cui Obama sta per iniziare il suo secondo mandato, è ancora una volta sui rapporti con il mondo islamico che la politica americana sarà in gran parte misurata. Ed In particolare è nel Medio Oriente e sulla riva sud del Mediterraneo che si concentrano oggi i problemi principali da affrontare. Le scelte che saranno compiute sulla Siria, sulla questione israelo-palestinese, sull’Iran e sugli sviluppi delle primavere arabe segneranno in profondità la futura evoluzione della situazione. Tra questi diversi dossier esiste come è noto una strettissima relazione, una vera e propria interdipendenza che si è ulteriormente accentuata per il ruolo che i nuovi partiti islamici hanno assunto in tutta la regione.

I recenti sviluppi della situazione a Gaza e il ruolo svolto dal presidente egiziano Morsi nel mediare la cessazione delle ostilità tra Hamas e Israele sono un segno evidente della novità intervenuta. Mai in passato era stato così forte ed era risultato così chiaro il legame tra una prospettiva di pace e di stabilizzazione in Medio Oriente e il progresso di un processo di democratizzazione. 
Tutti sanno che il raggiungimento di una maggiore unità palestinese che ricomponga almeno in parte la frattura tra Abu Mazen e Hamas è una condizione necessaria per lo sviluppo del negoziato. Questa ricomposizione richiede un cambiamento in Hamas che i processi politici che attraversano la regione possono favorire. E l’affermazione di un Islam politico democratico in Palestina e nei diversi paesi della regione sarebbe una garanzia più forte di qualsiasi muro per la sicurezza di Israele. Al punto che forse converrebbe modificare la parola d’ordine “due popoli, due stati” in quella “due popoli, due stati democratici”.

Questa possibilità dipende anche dal ruolo che la comunità internazionale, e l’Europa e gli Stati Uniti in primo luogo, sapranno giocare per offrire ai settori moderati e democratici dell’Islam una sponda affidabile e per esercitare su Israele una pressione politica che contribuisca a far emergere una interlocuzione positiva. Fino ad oggi questo non è avvenuto o è avvenuto in modo insufficiente. L’altro grande tema sul quale la politica estera americana durante il secondo mandato di Obama sarà chiamata alla prova è quella del multilateralismo. Qui la presidenza Obama aveva fatto, all’indomani della vittoria elettorale, grandi e solenne promesse.

Pochi mesi dopo il discorso del Cairo, il 24 settembre 2009, Obama aveva presieduto la riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che aveva adottato all’unanimità la risoluzione su disarmo e non proliferazione nucleare: per quanto il messaggio simbolico fosse nettamente prevalente sul contenuto concreto si era trattato pur sempre di un fatto politicamente rilevante.

E ancora, qualche mese dopo, il documento sulla National Security Strategy reso pubblico il 27 maggio 2010 a firma Barack Obama conteneva una esplicita professione di multilateralismo basato sul diritto internazionale, i diritti umani, la democrazia e lo ‘stato di diritto’. Esso segnava una radicale discontinuità rispetto all’approccio dell’unilateralismo e della guerra preventiva contenuto nel rapporto dell’Amministrazione Bush sulla National Security Strategy del 2002, aggiornato nel 2006.

In esso era scritto tra l’altro : “....in un mondo di sfide transnazionali, gli Stati Uniti hanno bisogno di investire nel rafforzamento del sistema internazionale, lavorando all’interno delle istituzioni e degli schemi internazionali per superare le loro imperfezioni e mobilitare la cooperazione transnazionale. (…) Rafforzare la legittimazione e l’autorità del diritto internazionale e delle istituzioni, specialmente delle Nazioni Unite, richiederà una continua lotta per migliorarne il funzionamento”.

Letti oggi quei discorsi, quelle dichiarazioni e quegli atti politici istituzionali che avevano acceso tante speranze nel mondo sembrano caduti nel vuoto. Certo non si possono dare solo agli Stati Uniti le responsabilità se da allora quella prospettiva è entrata in una crisi profonda e quelle promesse non sono state mantenute, ma su questo fronte la crisi è così seria che invece che a una nuova politica multipolare sembra a volte di assistere ad una caricatura del bipolarismo del tempo della guerra fredda.

L’Europa concorre a questa difficoltà: la sua sostanziale assenza dalla scena internazionale priva il tavolo multilaterale di una gamba essenziale per il suo equilibrio. La tragica spirale nella quale è precipitata la crisi siriana - lo spettacolo del veto di russi e cinesi al Consiglio di sicurezza, il fallimento delle missioni di Kofi Annan e di Brahimi, l’incapacità di fermare i massacri e di imporre un negoziato – è l’esempio più drammatico di questa crisi. È da questa matassa apparentemente inestricabile che bisognerà ripartire.

Pietro Marcenaro, Senatore PD